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Via Torre dei Conti (R. I – Monti) (da Piazza del Grillo a Largo Corrado Ricci – ex Piazza delle Carrette)
La torre dei Conti, che dà il nome alla strada [1] che da piazza delle Carrette [2] porta a Piazza del Grillo, restaurata nel 1933, fu edificata da Lotario dei conti di Segni, nato in Anagni nel 1161, cardinale nel 1190 eletto papa l'8 gennaio 1198 (morto a Perugia il 16 luglio 1216) col nome di Innocenzo III.
Si è creduto fosse stata alzata ai primi del XIII secolo sopra il tempio della Dea Tellus [3], ma recentemente esaminando gli avanzi in opera quadrata esistenti sotto la torre, è stata riconosciuta una grande nicchia ornamentale del lato nord-est del Foro della Pace, larga metri 9,80, profonda metri 7, alta più di metri 16; è stato anche precisato che la nicchia non era unica ma ne esisteva una seconda, collocate ambedue nel lato lungo cui facevano riscontro quelle dell’altro lato (una delle colonne di africano che si trovano avanti le nicchie sta nell’aiuola sotto la torre).
La torre costruita dal pontefice "sumptibus ecclesiae” (a spese della Chiesa), fu da lui affidata al proprio fratello Riccardo, che ne fu scacciato nei tumulti del 1203, quando la fortezza fu dichiarata proprietà del popolo romano.
Secondo il Vasari (1511-1574) ne fu architetto Marchione di Arezzo e fu detta "Turris Comitum” dalla famiglia del Pontefice (dei Conti di Segni) che risaliva al secolo IX e che dette in tutto alla chiesa 12 papi, 25 cardinali, e poi arcivescovi ed abati. Altri tra i suoi membri furono consoli, senatori e prefetti di Roma. La famiglia, al pari di quella dei Frangipane, si disse discendente dalla "gens Anicia”
La torre, che fino al 1205 rimase “sub nomine Communitatis”, tornò poi ai Conti. Nel 1237, fu dalla “Turris Urbis” che Giovanni Conti combatté contro il popolo che, non volendolo senatore, si era ribellato, opponendogli Giovanni di Cencio che finì per cedere. Come dice una cronaca: "Romani plebii, populus, communitates, contra Ioannem de Poli, senatorem Urbis, ipsum senatoriae dignitati cedere compulerunt, et Ioannem de Cencio substituerunt eidem: propter quod seditio et caedes multa facta est populi” (Riccardo da S. Germano - 1237). Molte volte rovinata dai combattimenti che vi si svolgevano, specialmente contro i Savelli, fu sempre riparata, finché non ne rimasero, fino a tutto il XVI secolo, due piani, e il troncone del terzo, in seguito al terremoto del 1348, del quale così scriveva il Petrarca: "Ecce Roma ipsa insolito tremore concussa est...Turris illa toto orbe unica, quae Comitum dicebatur, ingentibus rimis laxata dissiluit et nunc velut trunca caput superbi verticis horrorem solo effusum despicit” [4].
Continuarono i Conti ad abitarla e Carlo di Stefano vi datò il suo testamento nel 1487 e Sigismondo (1437-1491) vi fece fare un affresco da Benozzo Gozzoli (1424-1497), forse al secondo piano della torre, poi demolito sotto Urbano VIII (Maffeo Barberini - 1623-1644). Del dipinto di Benozzo Gozzoli ne parla il Vasari dicendo: "sopra una porta sotto cui si passa, fece in fresco una Nostra Donna con molti Santi". Della pittura esiste adesso un frammento nella vicina chiesa dei Santi Domenico e Sisto (Angelicum).
Così pure la lapide, oggi murata nella torre (Santa Maria in via Tor de’ Conti), dice: “Haec domus est Petri valde devota Nycole, Strenuus ille fidus miles fortissimus atque, Cernite qui vultis secus hanc transire Quirites, quam fortis intus nimis composita foris, est umquam nullus vobis qui dicere possit” (“Questa è la casa di Pietro assai devoto a Nicolò, strenuo, fedele e fortissimo soldato. Nessuno saprà dire quanto sia valida internamente e ben fatta di fuori”) doveva riferirsi alla casa fortificata vicina e non alla torre.
I caratteri paleografici che la compongono, la fanno risalire alla seconda metà del secolo X o agli inizi dell'XI, ed il Pietro nominatovi dovrebbe essere figlio di quel Nicolaus Petri de Comite, citato in un atto del 1094 e non Pietro Conti, senatore nel 1280.
I Conti del resto possedevano da tempo le loro dimore qui dove sorse poi la torre, che aveva ed ha una porta dal lato del Foro di Nerva, iniziato da Domiziano (81-96) ed inaugurato da Nerva (96-98). Questo Foro, quarto in ordine di tempo, fu anche chiamato "Foro transitorio" perché, oltre alla funzione di collegamento tra quello di Augusto e l’altro della Pace di Vespasiano, era attraversato da una strada, che partendo dal Foro Romano raggiungeva la Subura e le Carine. Questa strada di grande traffico fu detta “Argiletum”, nome che potrebbe derivare da quello di Argola, personaggio citato da Pausania (I, 28, 3), che sembra vi abbia dimorato o che vi sia stato sepolto, mentre altri pensano all'Argilla, poiché lì "vi si trova questo genere di terra".
L’Argiletum, prima della costruzione della basilica Emilia [5] (179 a.Ch.), scendeva dalla Subura in linea retta da est ad ovest, sul tracciato di un tratto di cloaca ancora visibile e sboccava nel punto di congiunzione del Comizio col Foro. In seguito, l'ultimo tratto dell’Argiletum fu alquanto deviato verso nord e sotto Domiziano (81-96) una parte fu inclusa nel Foro transitorio (Foro di Nerva) entrando da un angolo e uscendo da quello diametralmente opposto.
“Ad infimum Argiletum” erano le “Iani Gemini portae” o “l’aedes Jani” [6].
Il Foro di Nerva aveva anche un tempio esastilo corinzio dedicato a Minerva, che sorgeva nel fondo, sull'architrave, nel ‘500 si poteva ancora vedere parte dell'iscrizione dedicatoria dell' “Imp. Nerva Caesar Augustus Germanicus” il quale “aedem Minervae fecit”.
Fino agli scavi fatti per la costruzione di via dell'Impero (1931-32), del Foro di Nerva appariva solo un tratto del muro terminale costruito a grandi blocchi squadrati di peperino, con due colonne dinnanzi (dette le "Colonnacce”), con un fregio che sovrastava l'architrave, girando anche sopra le colonne, e che rappresenta lavori femminili, attinenti al mito di Aracne, oppure scene di iniziazione in riferimento al culto di Minerva e delle Muse. I risultati degli scavi sono stati minimi in seguito alla distruzione fattane da Paolo V (1605-21), che fra le altre cose abbatté il pronao del tempio di Minerva per usarne le colonne e le cornici ad ornamento del Fontanone sul Gianicolo [7]. Sono stati trovati pochi blocchi di marmo del rivestimento e i due stipiti del grande fornisce (l’Arcus Aureus del medioevo) per l'ingresso dei carri. Questi potevano raggiungere il Viminale ed i quartieri alti, percorrendo l’Argiletum (ne restano i solchi delle ruote nel sottofondo tufaceo) per recavarsi dal Foro all'Esquilino attraverso quest'unico passaggio, percorso ancora nel Medioevo, e a mezzo del “clivus Suburanus”. Fu per questo transito che il Foro fu anche chiamato “Forum Pervium”, ed Aurelio Vittore (seconda metà del IV sec.) aggiunge, che in esso la “aedes Minervae eminentior consurgit et magnificentior”.
Un tardo rifacimento è provato da una pavimentazione di lastre irregolari di marmo poggiate sopra un terreno di scarico di circa 1 m, che ricopre il pavimento originale di travertino appostovi da Nerva, e sotto il quale sono apparsi avanzi di case private di età anteriore [8]. Vi è stato pure scoperto un frammento della primitiva Cloaca Massima di età fra il IV e il III secolo avanti Cristo, e, scavate nel suolo vergine, ad oltre 4 m di profondità, 2 tombe a cremazione con suppellettile fittile attribuibile al IX o all'VIII secolo a.Ch..
Il foro di Nerva fu anche detto di Alessandro Severo (222-235), per averlo esso adornato di statue. Si legge che quest’imperatore vi fece morire, affogato dal fumo di paglia e di legna umide, un suo cortigiano, Vetronio Turino, che per guadagno, prometteva agli ingenui le grazie dell'Imperatore, mentre durante l'esecuzione, da una trombetta e da un annunciatore, l'imperatore faceva annunciare che: "Fumo punitur, qui vendidit fumum”.
“Archa Nohe” fu chiamata nel medioevo il fianco verso le "Colonnacce" [9]. Alle rovine esistenti presso quest’arco, che pur più tardi fu chiamato "arco di Nerva" (Arco de’ Pantani - sec. XV), si aggiunse una torre "iuxta Pantanum” che con altre fortificazioni e torri formarono un vero campo steccato nel recinto di mura che doveva occupare lo spazio tra il tempio di Antonino e Faustino, e i piedi del colle Oppio fino ai macelli di Arcanoe. Per il numero di torri, prese il nome di Campo Torrecchiano, dominato dall'alta torre che i "Mirabilia" chiamano "turris Cencii Fragipanis” che stava "inter sanctorum Adriani et Laurenti...basilicas interque fora magnum et Nervae transitorium”.
Pure presso l'arco di Nerva o dei Pantani era la "torre Saracina...iuxta plateolam macellorum (Comitum)... iuxta ortum magnum dicte ecclesie sancti Basilii...”.
Negli scavi del Foro di Augusto che, dopo quello di Nerva, costeggia la via della Torre de’ Conti, è venuta in luce la base di una torre medievale, demolita per esigenze di scavo. Questa torre, nelle immediate vicinanze del "Foro transitorio", era munita di un abbondante provvista d'acqua raccolta in quattro pozzi, le tracce dei quali apparivano visibilissime nei quattro lati della torre stessa. Il più notevole mostra in alto un parapetto di travertino, mentre il foro nella parte a destra scopriva una comunicazione col pozzo scavato dalla parte opposta.
Altra torre che faceva parte del campo Torrecchiano era quella della Contessa, presso Piazza delle Carrette, demolita nella seconda metà del IV secolo "per la via Capitolina Lateranense da farsi". Gli scavi suddetti portarono alla luce, oltre al Foro, anche il tempio di Marte Ultore[10]. Il Foro ed il tempio, votati da Augusto nel 42 a.C. durante la battaglia di Filippi, gli dettero modo di proseguire l'opera del vendicato Cesare, nell’ampliare il centro dell’Urbe con fabbriche degne della capitale dell’Impero. Non poté fare il Foro della grandezza che avrebbe voluto, per la vicinanza del popolare quartiere della Subura e dovette limitarsi nell'esproprio. Per difendere la sua opera dal fuoco, che spesso divampava fra le case suburbane, costruì quel muro, che si svolge appunto lungo la via di Tor de’ Conti, con pietra di gabina e peperino, che erano ritenuti refrattari al fuoco.
Il Foro di Augusto, rettangolare, ebbe due grandi emicicli coperti, dei quali ne resta uno solo alto fino al coronamento, che nell'altro, liberato nel 1933, vi si erano stabilite dentro, dilagando su una parte del tempio di Marte, le fabbriche del Convento dell'Annunziata (vedi appresso).
Dell'interno del foro, collocatevi da Augusto, erano le statue dei maggiori, da Enea ad Augusto, in bronzo ed in marmo. Gli elogi di ciascuno di essi, non erano scolpiti sulle basi delle statue, ma sulle lastre applicate nelle pareti e su piccoli plinti, collocati dinanzi. La statua di Cesare primeggiava fra tutte e nel tempio era in custodita, come reliquia, la sua spada.
La sala quadrata, con un atrio nel mezzo, contornata da un portico a pilastri nell'angolo settentrionale del Foro e quasi isolata da questo, si pensa facesse parte della residenza dei Salii, cui era affidato il tempio e dove avevano un luogo di riunione e... ristoro. Si racconta infatti che l’imperatore Claudio, che stava presiedendo in tribunale, interruppe la seduta ed accorse presso i Salii attratto dal piccante odore del loro banchetto.
Nel tempio in onore di Marte, per la salute corporale e spirituale dell'imperatore regnante sacrificavano [11], in certe ricorrenze, anche i fratelli Arvali. Tutte le cerimonie che avevano attinenza con la milizia vi venivano celebrate.
Il tempio di Marte, di sfondo al Foro, era periptero per tre lati, con otto colonne corinzie per lato ed un podio alto metri 3,55, decorato con lastre e festoni di metallo. La parete di fondo terminava con una grande abside, entro la quale, su di un basamento di cinque gradini, sorgevano le statue colossali di Marte e Venere, come vi si è potuto vedere dalle numerose riproduzioni in terracotta esistenti (Stat Venus Ultori iuncta - Ovidio).
All’esterno, in uno spazio rettangolare, prossimo ad una scala, che dal piano del Foro portava al livello superiore della strada esterna al muro di recinzione (ora via Tor de’ Conti), era custodita una statua colossale di cui restano, sul basamento, le impronte dei piedi e i fori nel muro, in corrispondenza dei fianchi e della testa. Era alta circa dodici metri e doveva rappresentare Augusto, giacché Marziale (40-104) scrive: "Colossus Augusti apud aedem Martis... foroque triplici" (Cesare, Augusto, Pace), è incerto se il colosso fu innalzato da Claudio (41-54), trasformando un’aula di tribunale in “heroon” (edificio dedicato ad un eroe), o da Tiberio (14-37) subito dopo la divinizzazione di Augusto (14).
Sono stati trovati frammenti dei due archi, dedicati a “Drusus Iulius Caesar” e “Germanicus Caesar”, figlio e nipote di Tiberio Cesare, che, si crede, chiudessero l'area del Foro in corrispondenza delle uscite sulla Suburra, ai lati del tempio di Marte. Dei due archi, sono stati trovate alcune lettere della iscrizione incisa su quello di Druso e così pure della scritta sotto la statua di Druso maggiore (Nero Claudius Drusus, + 9 a.C.), figlio di Livia ed altri frammenti delle iscrizioni di Traiano (98-117), Giulia Augusta (+ 218), oltre a molte dediche a Marte Ultore.
Nell'aula del Colosso sembra vi fossero collocati i quattro quadri ricordati da Plinio (23-79), di cui due di Apelle (seconda metà IV secolo a.C.). Erano pure conservate nel Foro due statue in avorio di Apollo e Minerva ed una quadriga di bronzo dedicata dal Senato ad Augusto.
Ai terremoti del V, del VI secolo, dell’801 e del 896, si debbono in parte la rovina degli edifici, ma più all’impianto delle numerose fornaci che sfruttarono nel medioevo l’abbondanza dei marmi e delle statue.
Già nel secolo IX i Basiliani eressero sulla cella del tempio, distrutta, una cappella dedicata a San Basilio, e del basamento ne fecero una cripta [12] sepolcrale (scala mortuorum).
In una Bolla di papa Agapito II (946-955), dell'anno 955, si nomina la chiesa di San Basilio col suo monastero, che nei suoi attributi seguì i nomi dati in quell'epoca ai monumenti circostanti.
Foro Palladio fu il Foro di Nerva ed “arcus aurei”, “L’arco dei Pantani” perché "Pantani" era chiamata la località, impaludata e per la depressione del terreno e per lo scolo delle acque scorrenti del Quirinale. L’ “arcus Nervae” detto “dei Pantani”, subì, anche per corruzione, il nome di "Arca Noè" che si estese a tutta la zona, forse perché l'insieme dei ruderi sembravano galleggiare su quel perenne pantano. I quali ruderi nel XII secolo, avevano il nome di "palatium Traiani imperatoris”.
Presso la chiesa di San Basilio si installarono i Cavalieri di Rodi (Malta), nel 1230, e quando il cardinale Marco Barbo fu nominato amministratore dei Cavalieri, nel 1466, dallo zio Paolo II (Pietro Barbo - 1465-1471), sulla terrazza Domizianea, che si trovava sull’allora via di Campo Carleo [13], innalzò archi e colonne [14] e fece dipingere [15] sulle pareti un giardino in cui alberi e mirti tagliati ad arte, si inquadravano in un’architettura a pilastri [16]. La terrazza detta Domiziana dalla sua costruzione, che certamente appartiene a quell'epoca (81-96), è da ritenersi come un ampliamento del Foro di Augusto, seguito fino ad addossarsi a qualche cosa che impediva di estendersi oltre e che ne occupava anche la vista.
Questo impedimento era formato dal monte, che occupava il luogo prima della costruzione del Foro di Traiano (98-117) e che Domiziano cominciò in tal modo ad intaccare. Su tale sella che univa il Campidoglio al Quirinale, passavano il pomerio dell'età repubblicana, le mura Serviane (alcuni blocchi sono in posto di fronte al Museo del Risorgimento), gli spechi della Marcia [17] e della Tepula che salivano, mediante "fistulae” [18], a pressione sul Campidoglio, dove esisteva la mostra terminale della Marcia con la statua di Q. Marcius Rex.
Ai piedi della loggia dell'edificio, del quale non è possibile precisare l'uso, ci sono alcuni ambienti, che si addossano al piccolo atrio porticato del Foro di Augusto, da dove, per mezzo di una scala a due campate, si sale al secondo piano, formato da un’unica grande sala, che ha la graziosa piccola loggia sul Foro e le due finestre a croce guelfa. Si sale poi al terzo, che, prima della copertura totale del Barbo, doveva essere almeno in parte scoperto, perché una cunetta di travertino vi coglieva le acque e le conduceva, fiancheggiando la scala, al canale sotterraneo di scolo.
Non si sa come i Cavalieri [19] entrassero in possesso della chiesa di San Basilio e convento "iuxta palatium Traiani imperatoris”, che era una delle venti Abbazie privilegiate di Roma, certo è che in quel tempo i monaci di San Basilio avevano dovuto cedere altri loro beni nelle terre dello Stato papale.
Alla chiesa, i Gerosolimitani aggiunsero il nome di "S. Giovanni de Campo Torriciano" e fu durante questa loro residenza che avvenne la presa di Rodi nel 1310. Nel 1312, l’assegnazione dei beni già appartenenti all’ordine dei Templari, da parte di Clemente V (1305-14), procurò loro anche il possesso di Santa Maria in Aventino (1320).
Al principio del XV secolo, la sede del Priorato si trasferì sull’Aventino e già al tempo di Martino V (1417-31) il convento di San Basilio era quasi abbandonato. Il nuovo papa assegnò al cardinale Ardicino della Porta l'edificio "dove furono soliti abitare il priore e il frate dell'ospedale di San Giovanni in Gerusalemme", a patto che questi eseguisse le riparazioni necessarie e, dopo la sua morte, lo restituisse all'Ordine, .
La crisi attraversata dall’Ordine, nonostante il pontefice Eugenio IV (Gabriele Condulmer - 1431-1447) e poi Nicolò V (Tommaso Parentucelli - 1447-1455) intendessero sanarla, persisteva e quest’ultimo con Bolla del 23 dicembre 1451 decretò che tutti i dipendenti della Religione Gerosolimitana dovessero, sotto minaccia di gravi pene, versare le somme dovute alla Tesoreria dell’Ordine nelle mani del banchiere Medici [20], Depositario pontificio, nominato per l'occasione Tesoriere dell’Ordine.
Anche Pio II (Ennio Silvio Piccolomini - 1458-1464) si occupò del bene dei Cavalieri, ma maggiormente Paolo II (Pietro Barbo - 1464-1471) che intervenne "con energia e con libertà sino allora inusitate per salvare l'Ordine dalla rovina totale". Egli, in un capitolo Generale dei Rodiani, impose come Gran Maestro e Priore di Roma Giovanni Battista Orsini e, in qualità di amministratore, il cardinale Marco Barbo, che si mantenne in questa carica fino alla sua morte nel 1491. Il cardinale Barbo, che abitò pure il palazzo, lo ricostruì e ornò come già detto, ma spirò nella casa, pure dell’Ordine, detta di S. Martinello, presso S. Pietro in Vaticano [21].
Nel 1570, Pio V (Antonio Michele Ghislieri - 1566-1572), fece rialzare il terreno della zona dei Fori per eliminarne il "pantano" ed affidò il convento di San Basilio alle neofite Domenicane, che lo chiamarono dell’Annunziata e ne cambiarono l’orientamento. Le suore ebbero la loro fondatrice in Giulia Colonna, sotto Pio IV (Giovanni Angelo Medici - 1559-1565). La chiesa dell’Annunziata infatti si trovò di traverso rispetto alla chiesa di S. Basilio, che era invece nel senso del tempio di Marte Ultore, di cui occupava la cella.
Il giardino delle suore ricopriva l'intero Foro e del tempio di Augusto emergevano solo le colonne all’altezza di via Tor de’ Conti [22] da cui si accedeva al monastero.
Un altro passaggio, verso la Suburra era l'arco dei Pantani, all’altezza del Foro di Nerva che era anch’esso interamente sepolto con case civili che sorgevano sul terrapieno. Anche qui emergevano, all’altezza stradale, le due colonne del foro dette le "colonnacce", fra le quali era collocata una piccola casa.
Della chiesa dell'Annunziata rimane soltanto l'ingresso con un elegante stucco figurante l’Annunciazione, e, con le finestre bifore del cardinale Barbo, che si vedono nella parte esterna del muraglione del Foro di Augusto sulla via Tor de’ Conti.
Chiesa dei Santi Quirico e Giulitta - Da una lapide finita per errore nei fondamenti della nuova abside della chiesa, questa risulta dedicata da papa Vigilio (539-555). L’antica, collocata ad un livello più basso dell'attuale, circa quello del tempio di Marte e del muraglione d’Augusto, sembra rimontasse ai tempi di San Girolamo (384-390), riedificata da papa Vigilio. La Chiesa attuale, al livello più alto, deve essere stata alzata nel XII secolo. Sisto IV, nel 1475, vi trasferì il corpo di S. Ciriaco e l'annesso titolo cardinalizio (oggi Santa Maria in via Lata). Fu più volte restaurata e nel XVII secolo la porta fu praticata nell’antica abside. In effetti, l’antica basilica era ad una sola navata e con absidiole laterali. Il campanile medievale della chiesa si è conservato alla sua destra. La facciata è del 1733. Nei lavori di restauro, effettuati nel 1954, è stato scoperto che un tratto del sottosuolo è pavimentato con marmo policromo e che esistono due muretti antichissimi che sono stati identificati per i resti del primo altare consacrato a San Quirico e a sua madre santa Giulitta martire. Sono stati pure rinvenuti affreschi del tempo di Costantino e del 1400; marmoree tombe e casse piombate del 1700. È stata scoperta una tomba appartenente ai Buonaparte.
Cappella di Santa Maria del buon Consiglio - È la cappellina di fronte all'ingresso della demolita chiesa dell’Annunziata. Fu edificata al principio del XIX secolo dalla famiglia Sturbinetti, utilizzando un vicoletto che attraversava allora le loro case in quel punto. Il vicolo, angusto e malfamato, fu così soppresso.
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[1] ) Nella strada una casa ad un solo piano (sec. XV) con porta ad arco ribassato e finestre rettangolari con mostra in pietra.
[2] ) Oggi Largo Corrado Ricci, dopo la sistemazione di via dei Fori Imperiali e di via Cavur
[3] ) Il tempio invece doveva trovarsi fra le odierne via Cavour e via dei Serpenti. Nel IV secolo esisteva ancora, restaurato dopo l'incendio del 64 d.Ch.. Nei pressi i Cataloghi Regionali pongono: "Porticus absidatam, Area Vulcani, Aureum Bucinum, Apollo sandalarius, Horrea chartaria, Tigillum sororium". Il Porticus absidata è subito alle spalle del foro di Nerva; l'area di Vulcano fa riferimento ad una piazza con la statua del Dio (forse nell’Argileto); l’aureum bucinum è forse l'immagine di una tromba o conchiglia dorata che dava il nome ad una strada; Apollo sandalario, pure una statua di Apollo con i sandali, che sorgeva a protezione di un vicus preferito dai librai; Horrea chartaria, grande magazzino di papiro egiziano, prossimo all' Argileto; Il “Tigillum sororium”, sotto la cui porta bassa, fu costretto a passare, come sotto una specie di giogo, l'Orazio vincitore dei Curiazzi, che aveva ucciso la sorella (sepolta presso la porta Capena) che, al suo ingresso trionfale in Roma, osava rimpiangere il suo fidanzato Curiazo abbattuto dal fratello nel celebre combattimento. (Livio I, 24, 25 e 26).
[4] ) Caddero pure i piani superiori della Torre delle Milizie, il frontone del Laterano, le chiese dei Santi XII Apostoli e di San Paolo, arcate del Colosseo ecc.. In una memoria del Gigli, è detto: 24 ottobre 1644 -"La notte era rovinata la Torre de’ Conti la quale cadendo oppresse alcune case contigue dove restarono morti doi huomini e quattro muli et andò a male molta robba".
[5] ) In origine si chiamò Aemilia et Fulvia, perché fondata dai censori M. Fulvio Nobiliore e M. Emilio Lepino. La gens Aemilia continuò ad averla in cura fino all'impero avanzato e la decorò e restaurò più volte. Gli scavi recenti hanno accertato che l'aula, verso l'Argileto, era chiusa da un muro laterizio di tarda età con lesene e finestre intermedie. Il lato opposto, che guarda il tempio di Antonino e Faustina, terminava invece con un colonnato, elevato sopra un podio di pochi gradini; il terzo lato, opposto alla facciata sulla via Sacra, sembra che fosse chiuso o almeno senza portico. Incerto il raccordo fra la Basilica e il Foro della Pace, pure incerto se due piccole stanze, che si trovano fra la basilica Emilia e la Via Sacra, siano i santuari di Lucio "princeps iuventuti et augur”, e di suo fratello Caio Cesare, il primo figlio adottivo di Augusto, periti di morte immatura attribuita, da voci maligne, a Livia. I frammenti di un'iscrizione, ora ricomposta, a lui dedicata, riapre i dubbi sul portico di Caio e Lucio e sui santuari eretti da Augusto in onore dei suoi nepoti. Dice il Bartoli che sulla fronte della Basilica ha notato le tracce di due luoghi di culto cristiano, uno all'angolo della Basilica con l'Argileto, l'altro nelle taberne verso Antonino e Faustina, ambedue fra il V e il VII secolo. A quest'ultimo successe la chiesa di San Giovanni Torrechiano, nominata nelle Liber censuum. Davanti alla Basilica dove la Cloaca Massima attraversava il Foro, i romani edificarono un piccolo tempio rotondo a Cloacina (Venere) ("Cloacinae Sacrum") (Livio III,48).
[6] ) Porta “Janis o Janualis” - Tra il Comizio e il Foro non è stata esattamente ubicata, e non si sa se facesse parte integrante dell’ “aedes Jani”, o se fosse un edificio indipendente. La Janualis è anche considerata il punto di unione della città Sabina e Romana. Servio (IV secolo d.C.) lo dice edificato da Romolo e Tito Tazio a suggello della pace conclusa, e perciò Giano avrebbe due facce, quasi a dimostrare l'alleanza dei due re. Macrobio (IV-V secolo d.C.) lo dà invece preesistente alla guerra fra i due re, tanto che i Sabini, già vittoriosi sui Romani, furono ricacciati indietro dai getti d'acqua calda che Giano sprigionò da questo Tempio attraverso “Jani Gemini portae”. Ma la critica moderna ne dà un'altra interpretazione: Giudicandola più una porta che un tempio, le attribuisce, all'origine, la funzione di confine tra il territorio Sabino è quello Romano (Quirinale-Palatino) ed infatti Varrone (116 a.C-27 a.C.) indica la porta gli Janualis come una delle porte del Palatino. Ed appunto dalla leggenda della sua origine dal patto di pace tra i due re, sarebbe nata la sua apertura o chiusura a seconda della guerra o della pace, cui Romani erano impegnati. Anzi la sua ubicazione “sub radicibus collis Quirinalis” lo avrebbe fatto identificare, secondo Orazio (65-8 a.C.) e Svetonio (I-II secolo d.C.) con Quirinus. Nell'arco centrale di Giano negoziavano i banchieri, dice Orazio nella prima epistola: “'o cives, cives, quaerenda pecunia primum est; virtus post nummos: haec Ianus summus ab imo prodocet, haec recinunt iuvenes dictata senesque laevo suspensi loculos tabulamque lacerto”.
[7] ) Un breve del Pontefice fa donazione, ai padri della Mercede di Sant’Adriano (costruita nella Curia del Foro Romano), delle pietre e dei beni dell'arco di Nerva: "pro priore et fratibus S. Adriani in foro boario ordinis B.Mariae de Mercede donatio lapidum et bonorum Arcus Nervae prope eorum ecclesiam existentis”.
[8] ) Oltre le vaste "insule” dell’Aventino, Cicerone ebbe anche sull'Argileto le sue case di speculazione, che gli fruttavano lautamente. Suo fratello Quinto abitò pure nell'Argileto, e le sue case furono presso il "templum Telluris” che, al dire dello stesso Cicerone, subì una diminuzione d'area, sottratta da Quinto per ingrandire la sua proprietà. Anche Pompeo ebbe la casa nelle "Carine” non lungi dal suddetto tempio, decorata dai rostri delle navi catturate nella guerra contro i Pirati. Come la casa di Cicerone, il tribuno Clodio voleva abbattere anche questa di Pompeo e costruirvi un "porticus” ma non ci riuscì, e la “domus Pompeiana” fu, alla morte di Pompeo (48 a.C.), posseduta da Marco Antonio. In proseguo di tempo l'ebbero e la abitarono i Gordiani (III sec. d.C.). Nel IV secolo mostravasi ancora la casa dell'Imperatore Balbino (238).
[9] ) Santa Maria degli Angeli nel Forum Transitorio, detta più tardi “in Macello Martirum” dal “fundicus, macellarum de Arca Nohe", cioè di un mercato, i cui banchi si annidavano fra le Colonnacce, ricevette nel 1745 le reliquie di San Marco. Fu anche detta "de arcu aureo” e "Sant'Agata dei tessitori".
[10] ) Augusto, per non contravvenire al principio religioso che non si potevano avere templi entro le mura, perché avrebbero potuto eccitare civili discordie, per costruire il tempio a Marte, secondo il suo voto fatto prima della battaglia di Filippi (42 a.C.) lo intitolò a Marte Ultore, non per l’ottenuta vittoria nella guerra civile, ma pel ricupero delle insegne tolte dai Parti a Crasso (53 a.C.). Augusto le ricevé “come se avesse vinto i Parti in qualche battaglia...ordinò si facessero sacrifici e decretò la fabbrica, che egli stesso condusse poi a termine, del tempio di Marte Ultore nel quale appender si dovessero i militari trofei come in quello di Giove Feretrio, cui Romolo avrebbe dedicato le spoglie opime tolte al duce dei vinti Caeninensi (Dione I e II sec.). In questo tempio ebbero poi luogo molte delle cerimonie che fino allora erano state fatte in quello estramuraneo che, dice una tradizione, crollò per le preghiere di Stefano I (254-257), quando Gallieno imperatore (253-268) ordinò vi si rinnovassero i sacrifici.
[11] ) I fasti del Collegio degli Arvali vennero dapprincipio incisi, di anno in anno, sullo stilobate del tempio della dea Dia, circa al quinto miglio della via Campana, situato nel “locus deae Diae” sede del Collegio. Venuto a mancare col tempo lo spazio, gli atti furono cominciati a incidere sugli spazi in bianco di alcune tavole inferiori ed in seguito su monumenti arvalici adiacenti al tempio e perfino sui sedili di marmo. Cessata sotto Gordiano III (238-44) l'incisione delle memorie e abbandonato nel IV secolo il bosco arvalico, le tavole andarono in gran parte disperse. Scomparvero prima quelle posteriori agli Antonini (96-192) che erano state scritte fuori dell'imbasamento e che furono adoperate quale materiale di costruzione sui luoghi più disparati di Roma ed immediate vicinanze. Per questo che frammenti arvalici sono stati trovati alla mole Adriana, in via dei Baullari, nel cimitero di San Valentino sulla Flaminia, a S. Crisogono in Trastevere, e perfino nei pressi di Mentana.
[12] ) Fu già supposta essere stata l’erario militare.
[13] ) Il « Campus Cololeonis » così detto dal palazzo di un'ottimate romano del tempo di Alberico (+ 925), fu corrotto in Carleoni e Carleo.
[14] ) La coprì per la benedizione del pontefice al popolo.
[15] ) Le pitture sono attribuite a Giuliano da Maiano (1432-1490).
[16] ) Le finestre bifore, sul muro perimetrale del foro di Augusto, sono di quest'epoca (XV sec.) Nell'interno: mostre di porta profilata con stemmi di B. Orsini e M. Barbo (1475) e traccia di una scala esterna (XV sec.).
[17] ) Le sue sorgenti sono state riconosciute dal Lanciani in quelle dette “Rosoline” a circa 1 km e mezzo ad ovest di Agosta. Il volume dell'acqua era di 4.690 quinarie (19.041,40 m³). Nerone per capriccio si gettò a nuoto nella sorgente della Marcia (Tacito XV,22)
[18] ) Condotte.
[19] ) Si chiamava allora Ordine Ospitaliero di S. Giovanni di Gerusalemme. L’Ordine ebbe poi facoltà di monetazione che fu iniziata a Malta nel 1530 e continuò fino al 1798, data in cui perdette la sua sovranità temporale.
[20] ) Cosimo il Vecchio (1389-1464).
[21] ) La chiesa di "S. Martino in porticu” o “in cortina”, perché vicina alla piazza della Basilica chiamata Cortina (piccola corte), era assai antica. Nominata da Leone IX (1049-1054). Nel XIV secolo era parrocchia; fu abbattuta quando, sotto Alessandro VII (1655-1667), per l'ampliamento della Piazza S. Pietro, fu demolito l'annesso palazzo dei Cavalieri di Malta e la chiesa (che i cavalieri di Rodi avevano ottenuto in feudo da Paolo V nel 1530).
[22] ) Il giardino delle suore mentre su via Alessandrina era sostenuto dal muro fabbricato da Agusto, dall'altro lato, sulla via Alessandrina (ora via Fori Imperiali) si appoggiava ad un muro di mattoni che per una decina di metri sovrastava la suddetta via. La via fu così chiamata, dal cardinale Michele Bonelli, detto l’Alessandrino, nipote di Pio V (1566-1572).
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